venerdì 27 gennaio 2012

Porrajmos. Storia di uno sterminio dimenticato

bambino sinto deportato ad Aushwitz, 1943
La scarsità delle fonti disponibili in Italia continua a costituire un limite oggettivo per la ricerca storica sul “Porrajmos”, licenziando, in modo sommario quanto superficiale, riletture assolutorie o revisionistiche degli eventi, tese per lo più a minimizzare, anche in quest'ambito, il peso del fascismo sulla storia nazionale, le deportazioni, le stragi, il genocidio.
L’assenza nel nostro Paese di una esplicita legislazione razziale relativa agli zingari  negli anni che precedettero la guerra e poi durante il secondo conflitto mondiale  non deve trarre in inganno.
Già gli scritti sugli zingari degli scienziati Renato Semizzi e Guido Landra, consulenti di Mussolini ed estensori delle leggi razziali, segnarono tra il 1938 e il 1940 una prima significativa svolta  e un cambio di rotta repentino nella politica del Regime. Inoltre, l’ampia discrezionalità nell’applicazione estensiva di alcune norme anti - ebraiche e il ricorso a disposizioni prefettizie in materia d’ordine pubblico, consentirono di fatto l’invio al confino e l’internamento nei campi di prigionia dei rom sul territorio nazionale o la loro deportazione verso i lager nazisti, segnando una continuità di sostanza con quanto di più cruento ed efferato si stava perpetrando nei territori dell’Europa Orientale.
I rom stranieri, insieme a saltibanchi e girovaghi, vennero a trovarsi nel mirino della polizia fascista già dal 1926, respinti oltre frontiera benché provvisti di regolare passaporto.
Nel 1938, con il varo in Italia delle leggi razziali, ebbero inizio nelle regioni del Nord Est vari rastrellamenti e deportazioni in massa di famiglie rom verso il meridione e le isole.
Dal 1941, in conseguenza dell’occupazione nazi fascista dei territori jugoslavi, la repressione iniziò a mostrare il suo aspetto più cruento attraverso l'azione dei nazionalisti Ustascia  (i fascisti croati) di Ante Pavelic che, tra il 1929 e il 1941, avevano trovato in più occasioni protezione e rifugio in Italia per volere dello stesso Mussolini.
In seguito alle prime disposizioni d’internamento inviate dal Capo della Polizia di allora, Arturo Bocchini, ai Prefetti del Regno e al Questore di Roma con la Circolare dell’11 settembre 1940, zingari stranieri e italiani furono arrestati e trasferiti nei campi provinciali allestiti dal Ministero dell’Interno a Bolzano, Berra, Boiano, Agnone, Tossicìa, Ferramonti, Vinchiaturo e nelle isole, tra cui la Sardegna, la Sicilia e le Tremiti, in regime di internamento libero.
Nel 1941, con la Circolare del 27 Aprile, il Ministero emise un ordine esplicito finalizzato all’internamento degli zingari italiani, che andarono ad aggiungersi agli oltre 50 campi destinati all’internamento civile.
Così, ad Agnone, nei pressi di Campobasso, vennero a trovarsi zingari jugoslavi a cui si aggiunsero dal luglio '41, 58 rom provenienti dal campo di Boiano (rinchiusi nei quattro capannoni di un ex tabacchificio), in condizione di estrema indigenza e di pessima igiene.
A Tossicìa vennero rinchiusi 118 rom provenienti dalla Slovenia, che troveranno scampo con la fuga, dopo l’8 settembre del 1943, unendosi in Emilia, Liguria e Piemonte, alle milizie partigiane, nelle cui fila combatterono alcuni rom e sinti, insigniti in seguito della medaglia d’oro per la Resistenza.
I documenti disponibili mostrano una visione solo parziale e frammentata della memoria del Porrajmos, perché trascritti da altri e perché fondamentalmente incuranti della dimensione orale e sociale delle testimonianze raccolte tra i sopravvissuti.
Tranne che in studi più recenti, “la memoria custodita nelle comunità rom” è stata di fatto ignorata, tralasciando di indagare i racconti dei perseguitati e di incrociarli con i dati riscontrabili negli archivi statali, comunali, delle questure e dei giornali dell’epoca, rimuovendo e tacendo un vuoto storico e una forte responsabilità sociale.
Arresto di un sinto nei pressi di Francoforte (fine anni ‘30)
I piani di sterminio del popolo rom, vennero attuati non solo nei territori annessi dal dominio nazista, ma anche dai governi collaborazionisti, in particolare in Romania e Jugoslavia, che furono, con la Polonia, tra i principali teatri di questa efferata persecuzione.
Molto si è scritto sul “campo zingari per famiglie”, il famigerato zigeunerlager di Auschwitz - Birkenau e sugli esperimenti condotti su cavie umane dal Dott. Mengele e dai suoi collaboratori, i cui crimini sono rimasti largamente impuniti.
Poco o nulla si conosce della tragedia del campo di Jasenovac, in Croazia, attivo dal novembre del '41 al 25 aprile del '45 in Croazia, nella regione di Lonja, presso la linea ferroviaria Zagabria – Belgrado, che rappresenta l’altro luogo simbolo dei crimini commessi contro il popolo rom dagli Ustascia collaborazionisti.
La persecuzione dei rom e sinti in territorio croato era già attiva nel luglio '41, prima con la schedatura delle famiglie ad opera dei comuni, delle polizie locali e delle prefetture, poi con i primi trasporti (29 aprile '41 da Zagabria – 300 persone) per approdare a una vera e propria e la deportazione di massa nel '42.
Jasenovac, istituito sotto il nome di “comando dei campi di raccolta e di lavoro”, prevedeva la gestione di 5 sottocampi: uno di questi, Stara Gradisca, denominato il “mattonificio”, per lungo tempo rappresentò la parte più spietata dell’internamento in quanto “campo della morte principale”, destinato alla liquidazione di persone pericolose e sgradite per l’ordine pubblico e la sicurezza: ebrei, serbi, antifascisti croati ma soprattutto zingari.
Il numero delle vittime di Jasenovac, stimato dalla Commissione di Stato dell’ex Jugoslavia, si attesta tra le 600 e le 800.000 unità, una cifra non precisa in quanto, già nell’aprile del '45, gli Ustascia avevano eliminato quasi ogni traccia dei loro crimini, distruggendo elenchi di vittime, riesumando cadaveri per bruciarli e distruggendo gli edifici del campo.
Anche in Serbia, l’armata tedesca della Wehrmacht perseguitò ed uccise in modo sistematico la popolazione Rom. Non c’è però modo di conoscere l’esatto numero di quanti morirono nel complesso nei campi di concentramento, o di fame e di freddo in tutta Europa. Interi gruppi sparirono da zone di antico insediamento, come l’Olanda, insieme alla generazione degli anziani, depositari del sapere e delle tradizioni.
Non solo i limiti della precisione statistica e lo stato di guerra generalizzato, ma la stessa struttura sociale dei gruppi e il loro prudente “mimetismo” (che rendeva parziale il censimento anagrafico dei nuclei familiari) rende arduo il compito, insieme alla forte dispersione territoriale, le sommarie registrazioni degli internati e la distruzione dei documenti .
Auschwitz, interno della baracca femminile
I fatti che, col trascorrere del tempo, sono stati resi noti dalle testimonianze e dai documenti ritrovati, hanno riproposto la comparazione di un destino comune tra ebrei e zingari: cioè quest’ultimi, fatte salve le distinzioni, siano stati perseguitati al pari dei primi, in quanto biologicamente esistenti e non come sostenuto fin nell’immediato dopoguerra, per la loro presunta asocialità.
Senza contate che anche per sinti e rom vale ciò che qualcuno ha sostenuto, ovvero: “non è forse verosimile il ritrovamento di un ordine scritto da Hitler circa lo sterminio degli ebrei europei… quanto maggiore è il crimine, tanto minore è la possibilità che se ne trovino prove scritte al livello più alto di un Governo…”.
Oblìo degli eventi e obbligo morale di dichiararsi a favore della memoria scadono, oggigiorno, nel pericolo di un facile conformismo, una banalizzazione del male tale da esorcizzare e liquidare la questione della colpa e delle responsabilità che rimangono in molti casi ancora aperte.
A quasi 70 anni dalla liberazione da Auschwitz, occorrerebbe che la società tutta si interrogasse sulle vicende di quel passato e al rapporto tra i popoli europei e quello zingaro, e su quanto insidiosamente le ideologie di ieri si nascondino in molte critiche e pregiudizi dell’oggi.

Maurizio Pagani
Giorgio Bezzecchi


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